Benedetto Croce. Il filosofo dalle idee opportune
Il 20 novembre 1952 moriva a Napoli, a 86 anni, il filoso Benedetto Croce, massimo esponente del liberalismo italiano del Novecento. Il suo pensiero è stato recentemente riscoperto soprattutto in Europa e negli Stati Uniti dove è riconosciuto al pari di Karl Popper, come uno dei più autorevoli teorici del liberalismo europeo e convinto oppositore di ogni forma di totalitarismo.
Con Giovanni Gentile (1875-1944), pur su fronti opposti sia per approdo filosofico e, dopo l’omicidio dell’onorevole socialista Giacomo Matteotti nel 1924 per mano fascista, sia per posizione politica è ritenuto un protagonista della cultura italiana ed europea della prima metà del Novecento.
Il filosofo nato a Pescasseroli, è ricordato anche per il suo Manifesto degli intellettuali antifascisti, che scrisse su richiesta del politico accademico e giornalista Giovanni Amendola, in replica al Manifesto degli intellettuali fascisti di tutte le nazioni elaborato da Giovanni Gentile.
All’uscita del testo di Gentile, il 21 aprile 1925 e pubblicato sui principali quotidiani, Amendola inviò una nota al filoso che diceva: “Caro Croce avete letto il manifesto fascista? … Oggi ho incontrato varie persone le quali pensano che, dopo l’indirizzo fascista noi abbiamo il diritto di parlare e il dovere di rispondere … . Sareste disposto a firmare una documento di risposta … . E, in caso vi sentireste di scriverlo voi?”. Pronta la risposta di Croce: “Mio caro Amendola… l’idea mi pare opportuna. Abbozzerà oggi stesso una risposta che a mio parere dovrebbe essere breve per non far dell’accademia e non annoiare la gente”.
Il Manifesto di Gentile (già divenuto l’intellettuale più importante del regime fascista, Ministro dell’Istruzione, (1922 -1924), poi titolare di una delle maggiori riforme della scuola italiana e fedele fascista fino all’attento di cui rimase vittima nel 1944) era stato sottoscritto da 250 uomini di cultura fra i quali il vate, Gabriele D’Annunzio, il drammaturgo Luigi Pirandello (Nobel per la letteratura 1934), Filippo Tommaso Marinetti, autore del famoso Manifesto del Futurismo e, a sorpresa per i lettori più giovani, il poeta Giuseppe Ungaretti (Benito Mussolini gli scrisse la prefazione della raccolta di poesia Allegria nel 1931).
Il testo di Croce, noto anche come l’Anti-manifesto o il Contro-manifesto fu pubblicato il 1 maggio del 1925, sui quotidiani Il Popolo e Il Mondo, intitolato rispettivamente La replica degli intellettuali non fascisti al manifesto di Giovanni Gentile e La protesta contro il “Manifesto degli intellettuali fascisti”. Tra i firmatari le scrittrici Sibilla Aleramo e Matilde Serao , il poeta Eugenio Montale, lo storico della letteratura Attilio Momigliano, lo storico Gaetano Salvemini, i futuri costituente e presidente della Repubblica Piero Calamandrei e Luigi Einaudi futuro presidente della Repubblica (1948 – 1955).
Il filosofo Croce aveva mantenuto le premesse il suo Contro-manifesto: il testo, che riportiamo di seguito, è un elaborato più semplice di quello di Gentile, enfatico senza cadere nel retorico e che mette in risalto l’importanza dell’autonomia della cultura e della politica.
Manifesto degli intellettuali anti fascisti
Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’ intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’ accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile e famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gl’ intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno solo il dovere di attendere, con l’ opera dell’ indagine e della critica, e con le creazioni dell’ arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica, letteratura e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso. E non è nemmeno, quello degl’ intellettuali fascisti, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni.
Nella sostanza, quella scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’ avvicendarsi dei partiti al potere, anche, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; ‐ o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl’ individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale. [… ] Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’ abuso che vi si fa della parola “religione”; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; ‐ e ne recano a prova l’ odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’ odio e il rancore che si accendono da un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’ italiani e li ingiuria stranieri, e in quest’ atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’ animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani dell’ Università l’ antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona, a dir vero, come un’ assai lugubre facezia.
In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d’ altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’ autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento dalla cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E, se taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare indizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo. Per questa caotica e inafferrabile “religione” noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’ Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’ educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia patirono e morirono, e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale.
Ripetono gl’ intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trista frase che il Risorgimento d’ Italia fu opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’ Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’ italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascistico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’ inerzia e nell’ indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governi assolutistici e quietistici. Anche oggi, né quell’ asserita indifferenza e inerzia, né gli impedimenti che si frappongono alla libertà, c’ inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d’ intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.
1 Maggio 1925
Fonte: ousia.it
Immagine: Benedetto Croce con Lidia, una delle sue tre figlie