Simulare o non simulare, questo è il problema…
Simulare o non simulare? Proprio ben dentro ad giornata “decisiva” del campionato di Serie A (così come “decisive” sono giornalisticamente tutte le ultime giornate, non si sa perché lo siano di più delle altre, in effetti…) è arrivato il momento di riflettere su questa stonata evoluzione del ben più aulico “Essere o non essere?“: appunto, “Simulare o non simulare?”.
UNA DOMANDA ESISTENZIALE – In effetti, la domanda è per certi versi esistenziale: perché coglie in profondità l’essenza stessa del gioco, dello sport, della competizione. E lo è così tanto da scomodare detti, ridetti e ricorsi della cultura occidentale stessa come “Il fine giustifica i mezzi”, o “In amore e in guerra tutto è permesso”, senza dimenticare il “l’importante non è vincere, ma partecipare…”.
LO SPUNTO: IL DERBY – Lo spunto a questa nostra riflessione ce lo ha dato proprio una partita di qualche giorno fa, per la precisione del 30 aprile. Non era una partita normale: Roma – Lazio non lo può mai essere. Perché è il derby della Capitale.
Una partita che, per certi versi, vale una stagione. Madre di sfottò, frasi e ricordi da tramandare. E che, nella sua ultima edizione – per la cronaca, finita 1-3 per i Laziali – ha vissuto un celebre momento triste.
“Kevin Strootman – scrive la Gazzetta il 2 maggio – è stato squalificato per due giornate dopo la simulazione nel derby, che ha portato al rigore trasformato da De Rossi. Secondo il giudice sportivo – scrive ancora la Rosea – “il calciatore Strootman, dopo aver spostato lateralmente con il piede il pallone di giuoco, ha effettuato una torsione innaturale con relativa caduta a terra che in alcun modo può ricondursi al tentativo di intervento del calciatore della Società Lazio Wallace”, e di conseguenza “risultano pienamente integrati i presupposti per l’applicazione dell’art. 35, 1.3, CGS, trattandosi di condotta gravemente antisportiva, evidentemente non percepita dall’Arbitro”. Insomma: il giro di valzer in piena area di rigore, capace di fregare un arbitro di campo più un addizionale di porta che ha portato De Rossi dal dischetto a momentaneo pareggio (1-1) è stato visto, e sanzionato.
GRAVEMENTE ANTISPORTIVA – Quindi, eccoci qua: due giornata di squalifica a Strootman per condotta “gravemente antisportiva”. Quindi, totalmente contro ai valori, alle idee e agli ideali di quella cosa che stava avvenendo dentro all’Olimpico: un momento di calcio, quindi di sport.
VABBE’ – E qui arriviamo al motivo vero e intrinseco per il quale stiamo scrivendo questo articolo – seguendo, così, un’idea nostra di racconto e di narrazione della realtà e della quotidianità. Un motivo che potremmo riassumere in un cianotico: “Vabbè, dai, di che te la prendi?“, domanda tra il canzonatorio e lo strafottente che si è trovato a dover fronteggiare chi, nei giorni successivi, ha commentato sui social il gesto del giocatore olandese stigmatizzandolo a dovere. I commenti spesso erano da “alzata di spalle”: “Oh, che ti sei svegliato oggi?!”, “Ma in che mondo vivi?”, ed anche “Forza Roma!”. Insomma: indulgenza. Perché “il fine giustifica i mezzi”, in definitiva, anche se quel fine è una vittoria sportiva. Anzi: soprattutto se quel fine è una vittoria sportiva così idealizzata come quella in un derby (che, per una evidente applicazione della legge del contrappasso, ha scaturito invece un sonoro 1-3, e ciao ciao sogni tricolori per i giallorossi). E qui torniamo, come se fosse un cortocircuito, alla domanda esistenziale iniziale: simulare o non simulare?
IL FAIR PLAY CHE NOBILITA – E non solo, anzi: potremmo dire “Giocare sportivamente o non sportivamente?“. Beh: in molti, nella storia molto più che secolare del football internazionale, hanno scelto la via del gesto sportivo. Il “fair play” lo chiamiamo, perché in effetti una qualsivoglia traduzione in italiano non rende interamente il significato inglese: potremmo dire “agire nobile”, o “agire giusto”, o anche “agire sportivo”, ma in tutti i casi una coloritura prenderebbe più spazio delle altre. E di esempi, ce ne sono stati, eccome.
Uno dei più celebri, nemmeno a farlo apposta, ha visto come protagonista un giocatore che di Roma – Lazio (stavolta, con i colori biancocelesti) se ne intende: Paolo Di Canio. Che, invece di ribadire in rete a porta spalancata un cross-meraviglia, bloccò la palla con le mani per far soccorrere il portiere avversario infortunatisi in una uscita avventata. Gesto che gli valse una lettera ufficiale di encomio dalla Fifa.
Ma non è il solo: durante un Arsenal – Liverpool del 1997, per esempio, l’attaccante dei Reds, Fowler, cercò in tutti i modi di convincere l’arbitro dell’inesistenza del fallo su di lui commesso, secondo il fischietto, dal portiere Seaman. Fowler si diresse verso l’arbitro che aveva fischiato il penalty senza consultare né allenatore né compagni, dando per scontato che fosse la cosa più giusta da fare. Gran bel gesto, che però non ebbe l’esito sperato: il direttore di gara non retrocedette dalla sua decisione… Il fair play di mano, invece, ha coinvolto per ben due volte il nostro campionato: nel 2006 De Rossi (ironia della sorte, proprio colui il quale ha realizzato il rigore inesistente procurato dal gestaccio di Strootman) si autodichiarò reo di fallo di mano per segnare un gol contro il Messina che, invece, era stato convalidato. Cosa che fece anche Klose (ancora una volta un laziale!), al San Paolo contro il Napoli (dove però aspettò di essere interpellato dall’arbitro Banti, messo in dubbio sulla bontà del gol appena fischiato dalle sonore proteste di tutti i giocatori partenopei).
LA VAR SAREBBE INUTILE, VERO STROOTMAN? – Insomma: di tanto in tanto nella storia del calcio (e quella che vi abbiamo proposto è una lista molto sommaria oltre che ridottissima – per averne una più completa clicca qui) ci sono stati e ci sono esempi di nobiltà, giustizia e sportività. Come a ricordarci, un po’ e un po’ per volta, che quello di cui stiamo parlando è in effetti un gioco, un ninnolo, un divertimento sociale. E’ vero: è un divertimento intorno al quale girano un sacco immenso di quattrini. Ma, forse, la stessa socialità, lo stesso essere “personaggi pubblici” dei suoi protagonisti, la sua stessa aurea intrinseca che ne ha fatto uno dei pochi eventi capaci di bloccare città, paesi e rioni per dar luogo a veri e propri spettacoli sociali di colore, identità e partecipazione dovrebbero arricchirne di responsabilità gli interpreti, tutti. Perché se ci fossero 22 giocatori sportivi in campo, probabilmente la VAR – nei campi di calcio come nella vita vera – non servirebbe. Vero Strootman?