Insieme per la Pecora Bianca. Ufe, un'alternativa possibile per il disagio mentale - Abbanews

Insieme per la Pecora Bianca. Ufe, un’alternativa possibile per il disagio mentale

Ma poi mia madre quando non è triste pare che diventa arrabbiata. Scalcia, strilla e rompe tutto. Una volta gli ha dato un mozzico in faccia alla suora e gli ha staccato un pezzo di faccia. Per questo che nell’istituto la legano e manco l’elettricità la riesce a curare. Ma adesso gli hanno fatto un’operazione che gli hanno tagliato certi nervi del cervello. … Mia madre adesso non scalcia, non strilla e non rompe niente. La suora dice che tra qualche giorno la slegano. Adesso è come una pianta. (A.Celestini)

ascanio-celestini-pecora-nera-071Queste le parole con cui Ascanio Celestini (nella foto a sinistra), in La Pecora Nera, descrive lo stato della malattia mentale e delle disposizioni di cura prima delle Legge 180 del 1978,  meglio conosciuta come la Legge Basaglia che ha normato la chiusura dei manicomi, sancendo la volontarietà dei trattamenti per malattia mentale e relegando l’obbligatorietà a situazioni estreme.

La cura e la riabilitazione vengono attribuiti ai servizi e ai presidi extra ospedalieri. In altri termini, il territorio diviene l’agente preposto ad accogliere e guarire. Ma la terra con il suo frastagliato sostrato riserva sorprese e non sempre l’applicazione della legge ha sortito gli effetti desiderati.

E se per un verso i depositari di Basaglia sono riusciti a sfaldare l’emarginazione atavica a questa tipologia di disturbi,  dall’altro continuano ad isolare il disagio psichiatrico, relegando le buone pratiche a casi unici, diffusi a grappolo.

Da qui una nuova proposta di legge, la 2233, che anela l’universalità di una strategia unitaria per un approccio comune e condiviso. Un punto essenziale del progetto normativo è regolamentare su scala nazionale il coinvolgimento degli UFE, utenti familiari esperti. Non un acronimo come un altro, bensì una sigla che ha aperto nuove scenografie nell’ambito della riabilitazione psichica.

Ruolo centrale degli UFE

ufe-utenti-familiari-espertiSi tratta di specifiche figure che mettono a disposizione il proprio vissuto, fornendo in maniera strutturata e continuativa prestazioni all’interno dei servizi di cura mentale. Ogni loro attività naturalmente viene monetizzata secondo un comune processo che ne riconosce l’apporto teorico e pratico.

In uno scenario aperto, sperimentato entro e fuori i confini nazionali, utenti e familiari lavorano accanto ad operatori e medici al fine di migliorare la qualità dell’assistenza. Così, lungo il percorso di cura, gli Ufe si costituiscono come guide esperte di quel terreno impervio che è la malattia mentale.

Spesso vengono impiegati nell’accoglienza al front-office del servizio, altre volte offrono il loro sostegno agli utenti durante i momenti di crisi; insomma possono essere una presenza costante nelle comunità per garantire la ripresa, seppur lenta, della normalità.

Tuttavia, gli UFE non solo con-dividono il valore della storia personale, ma sviluppano la capacità di trasmettere feedback di follia.  Implementare l’importanza del sapere esperenziale è stato ed è, un caposaldo della filosofia del Fareassieme, un progetto che ha preso vita nell’ambito del Servizio di Salute Mentale di Trento a fine anni Novanta e da cui nasce la spinta propulsiva per la nuova legge.

Fareassieme è prima di tutto una pratica, una best practice a quanto pare, che fonda la sua ragion d’essere su quattro assiomi fondamentali.

Primo: ognuno è portatore di un sapere dall’ampio respiro, sia esso costruito sui banchi di scuola o esperito a fatica, attraverso una camminata resa goffa dai farmaci. Essere consapevoli dell’apporto che può offrire chi ha subito sulla propria  pelle l’effige della follia ed essere al contempo ri-conoscenti verso chi ha sentito il malessere psichico, un’onda anomala che fa tremare e crollare certezze.

Secondo: il principio della responsabilità che ogni individuo deve conferire al suo agire, poiché siamo, o quanto meno dovremmo essere,  una totalità concreta in cui ci si adopera per il benessere comune.

Terzo: inevitabile corollario, il cambiamento è possibile, e anche chi sembra prostrato al proprio dolore può farcela, può esperire il nuovo e rendersi magari risorsa, indispensabile per dispensare cure.

Quarto: riconoscere la dignità del proprio dolore attraverso il confronto, l’ascolto, la condivisione per un circolo ermeneutico della follia. Com-prendere per sorprendere familiari lacerati da quella strana inquietudine che contagia chi è o è stato a contatto con la malattia mentale, e ne resta inevitabilmente contagiato. E chi ha conosciuto gli effetti collaterali della follia non può restare inerme dinnanzi al cantico dei disperati.

Può, una volta rientrato nel consorzio degli umani affetti, mettere a servizio la propria storia, un vissuto per molti ancora da vivere. Ebbene, una partecipazione e-motiva, senza discriminanti, volta a contribuire alla buona riuscita del piano terapeutico è davvero possibile? Forse siamo di fronte ad un paradigma poco sostenibile, perché sa di vecchia utopia. Pensare di coinvolgere tutti secondo i propri bisogni e possibilità.

Eppure, l’esperienza degli Ufe è un esempio eccellente della trasformazione dei processi di cura  che necessita di una regolamentazione nazionale. L’auspicio è che l’iscrizione della regola non cancelli il tratto umano.

 

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