Gli scienziati e la bomba atomica

Nell’agosto del 1939, alla vigilia dell’invasione della Germania in Polonia che segnò l’inizio della Seconda guerra mondiale, Albert Einstein, sotto la spinta del collega, il fisico Leo Szilard, scrisse una lettera al presidente statunitense Delano Roosevelt per informarlo che alcuni fisici tedeschi stavano conducendo ricerche sulla fissione nucleare e che tali ricerche erano giunte al punto di “realizzare una reazione nucleare a catena in una grande massa di uranio, tramite la quale vaste quantità di potenza e grandi quantità di nuovi elementi simili al radio possono essere generati […] nell’immediato futuro”.  Il procedimento, insomma, avrebbe condotto “alla costruzione di bombe di nuovo tipo ed estremamente potenti”.   Einstein chiedeva agli Usa di cessare le vendite dell’uranio alla Germania e di interessarsi alle ricerche sull’energia nucleare.

Roosevelt darà corpo alle ragioni espresse nella lettera nel 1941, quando strinse l’accordo con l’alleato britannico di concentrare negli Usa gli sforzi per la ricerca sul nucleare, con l’appoggio del Canada. Si giunse, così, al famoso Progetto Manhattan, che nel 1942 riunì alla Ranch School di Los Alamos (New Mexico) un gruppo di scienziati (tutti europei in fuga dal fasci-nazismo, fra questi anche l’italiano Enrico Fermi) guidati da Robert Oppenheimer. Il loro compito era intensificare le ricerche sul nucleare e giungere alla realizzazione dell’arma atomica prima dei nazisti.

L’intenso lavoro di ricerca portò all’apertura di vari laboratori e il numero delle persone impegnate nel Progetto crebbe notevolmente, nonostante il grande segreto che doveva mantenere l’operazione.  Arrivarono alla realizzazione dell’arma atomica dopo 2 anni di lavoro.  E 2 furono le bombe che gli Usa sganciarono il 6 e il 9 agosto del 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima (bomba all’uranio, chiamata Little Boy) e Nagasaki (bomba al plutonio, detta Fat Man).

Le bombe segnarono la fine della Seconda guerra mondiale ma dimostrarono – con la quantità di morti dirette e indirette e gli enormi danni ambientali – la forza distruttiva del nucleare.

Gli scienziati all’opera ben sapevano le conseguenze del nucleare. Se in un primo tempo, oltre alla spinta della ricerca scientifica, erano animati dalla voglia di abbattere il nazismo, poi ebbero dei dubbi, coscienti di aver creato un’arma di distruzione di massa. Ancora una volta Szilard, attivissimo nel Progetto, nel 1945 redasse una petizione firmata da 68 dipendenti del Progetto,  indirizzata al presidente Usa, Harry Truman, succeduto a Roosevelt nell’aprile del 1945. Si trattava del Rapporto Franck, dove si diceva apertamente che lanciare le prime atomiche sul Giappone era del tutto ingiustificato. La petizione non ebbe seguito.

La reazione degli scienziati tutti si ebbe dopo la distruzione delle 2 città.   Oppenheimer disse: “I fisici hanno conosciuto il peccato”; ma sembra che alcuni giorni prima del lancio delle bombe si era autodefinito già “Morte, il distruttore di mondi”.

Albert Einstein non aveva partecipato al Progetto Manhattan, ma si sentiva comunque responsabile: per la lettera del ’39 ma, soprattutto, per la sua teoria della relatività la quale, con la formula dell’equivalenza fra massa ed energia, aveva dimostrato, teoricamente, che l’atomo di uranio era un forziere di energia. E le stesse bombe atomiche sul Giappone, confermavano la sua teoria.

Alla fine del 1945 scrisse: “Si è conquistata la vittoria, ma non la pace”. L’atomica, sosteneva, poneva all’umanità ma soprattutto agli scienziati, angosciosi ma necessari interrogativi.   “Oggi l’uomo di scienza soffre di un tragico destino – rifletteva Einstein – perché ha creato egli stesso con i suoi sforzi gli strumenti per ridurlo in schiavitù e distruggerlo perfino nel suo intimo. Come un soldato egli è costretto a sacrificare la propria vita e a distruggere quella degli altri, anche quando è convinto di tale sacrificio”.

Pacifista convinto – già nel 1913 si era rifiutato di firmare un manifesto a favore della Prima guerra mondiale – Einstein si oppose all’uso militare della sua teoria. Dopo la Seconda guerra mondiale insistette per il disarmo nucleare.  Commentava “non so con quali armi verrà combattuta la Terza guerra mondiale, ma la quarta verrà combattuta con clave e pietre”.  E il suo ultimo atto fu il Manifesto – appello per il disarmo nucleare firmato prima di morire il 18 aprile 1955 e presentato a Londra nel luglio successivo da Bertrand Russell.

A Russell aveva affidato anche il suo testamento spirituale: un inno alla convivenza umana, che inizia così: “Ci nutriamo di alimenti prodotti da altri uomini, portiamo abiti fatti da altri, abitiamo case costruite dal lavoro altrui. La maggior parte di quanto sappiamo e crediamo c’e stata insegnata da altri per mezzo di una lingua che altri hanno creato. Senza la lingua la nostra facoltà di pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella degli animali superiori; perciò la nostra priorità sugli animali consiste prima di tutto – bisogna confessarlo – nel nostro modo di vivere in società. L’individuo lasciato solo fin dalla nascita resterebbe, nei suoi pensieri e sentimenti, simile agli animali in misura assai difficile a immaginare.
Ciò che è e ciò che rappresenta l’individuo non lo è in quanto individuo, ma in quanto membro di una grande società umana che guida il suo essere materiale e morale dalla nascita fino alla morte”.

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