Dino Buzzati. La fiaba del reale
Conoscere qualcuno, ricordarne il volto, il comportamento, i movimenti, le abitudini ma anche un mancato sorriso, un lampo di gioia negli occhi, fa sì che quell’immagine pur chiara, lasci poco spazio a quella fantasia, che fa parte dell’immaginazione di una diciassettenne.
Però ricordo, sì, mi ricordo, un incontro non programmato, voluto da una signora prossima agli ottant’anni, cui la scrivente deve molto per averle fatto conoscere i grandi scrittori dell’ottocento e del novecento.
Correva l’anno 1960, l’estate aveva cominciato a portare giorni caldi ed afosi, che cosa c’era di meglio se non trascorrere una settimana nell’alto Cadore? Così in compagnia dell’amica dopo un faticoso viaggio in treno, ci ritrovammo ospiti dell’hotel Cappello Cadore in Belluno.
Per un paio di giorni la mia compagna di viaggio, decise di far visita ad alcune amiche residenti in quella zona, e così un pomeriggio mi ritrovai davanti ad un cancello di una villetta, delimitata da una alta siepe, ed allo squillare della campanella apparve una giovane ragazza, con un camice celeste ed un grembiulino bianco che ci invitò ad entrare. La signora Alba ci stava aspettando. Cordialissimi furono i saluti tra le due amiche che, seppi successivamente, lo erano da tanti anni.
Ascoltai i loro discorsi, farciti di alcuni piccoli pettegolezzi, ma inevitabilmente il loro parlare scivolò sul figlio della signora che ci ospitava, e la mia conoscente chiese:“Dino come sta? E’ a Milano? Viene a S. Pellegrino?” Sembrava ci fosse una gran fretta nel voler sapere tutto e subito. Il perché era semplice. Solitamente la persona di cui ci si informava non era presente in quel periodo dell’anno in quella casa. Quando poi la signora Alba riferì che il figlio era di là, nello studio, la mia amica esplose in un gridolino di gioia, e si rivolse a me dicendo:”Ti faccio conoscere Dino Buzzati.” Non conoscevo tutti i suoi scritti ma ero consapevole che avrei incontrato una delle più importanti firme del Corriere della Sera.
Fu servito il tè, ed al richiamo della madre, un signore alto e magro, dall’aspetto distinto e dal passo cadenzato e lento, entrò nella sala. Dopo i saluti reciproci,come avviene tra persone che si rincontrano dopo un anno, fui presentata. Una stretta di mano, da montanaro, vista la passione che Buzzati aveva per le scalate, accompagnata da questa sua domanda:”Come mai il mare vuol incontrare il monte?”
Forse il mio accento aveva tradito le mie origini, ma a me parve un inizio di colloquio molto originale. E su questa falsariga, anche se la mia timidezza aveva arrossato le mie gote e la mia voce zoppicava come durante le interrogazioni scolastiche, provai a dirgli della mia passione per lo scrivere e del mio desiderio di diventare giornalista. Scosse la testa, mi toccò impercettibilmente la spalla con la sua mano e disse:” Tempi duri, figlia mia, bussare alla porta di una redazione è come scalare una montagna, e poi se non si hanno santi in paradiso, meglio scegliere e percorrere altre strade.
Il consiglio che posso darle è quello di non perdersi mai d’animo, e anche se i risultati non arriveranno subito, non si dia mai per vinta. L’importante è scrivere con la penna ma anche con il cuore e poi, giù, con la fantasia su ogni cosa che si vuol dire, si ricordi però che chi legge, vuole sentirsi partecipe in prima persona della storia.”
Detto questo si voltò e prese a parlare d’altro. Poco dopo, come se un freddo improvviso fosse entrato nella stanza, parve non partecipare più a nessun discorso, si ammutolì, e guardò fuori dalla finestra. Nei suoi occhi parve scendere l’angoscia per il buio che il tramonto portava con sé, la paura ed il mistero che il destino riserva ad ognuno, ma che nell’ anima di un poeta è come un qualcosa di beffardo che si vorrebbe conoscere in anticipo, convinti di poterlo sconfiggere.
Solo dopo tanto tempo, ho capito che nei suoi scritti la magia, accompagnata dall’attesa della morte e dalla ricerca dell’assoluto o il cercare il riscatto da una vita mediocre assieme all’ineluttabilità e all’illusione dell’eternità, erano i temi principali narrati in tutti i suoi racconti, romanzi e novelle.
E per lui l’attesa della morte fu una dura compagna per due anni, la incontrò e ne fece dapprima una nemica, respingendola con tutte le forze, poi stremato l’accettò, come si accetta un destino onnipotente ed imperscrutabile. Quale forza può averle dato la sua amicizia con Don Zeno Saltini non lo sapremo mai. Certo, che, da ateo qual’era, ebbe un sussulto ed in lui nacque, sul finire dei suoi giorni, la voglia di trovare quella dignità che restituisse la sua vita a Dio.
Oggi ho tra le mani, non, il suo più famoso romanzo:” Il deserto dei tartari”, ma il libro: “60 racconti” che mi fu donato nell’occasione del nostro incontro, e che lessi allora, senza mai prendere fiato, e che ancora oggi, ogni volta che lo riapro, scopro tra quelle righe qualcosa di misterioso: quelle sue tematiche che a volte nascevano dal fiabesco per nascondersi invece nel reale.