Quando a Roma gli omosessuali decisero di sposarsi

Nel portico medioevale della romana basilica San Giovanni di Porta Latina, nonostante il trascorrere del tempo, l’aria è ancora “piena di fumo e di cenere” scrive Tommaso Giartosio, poeta, scrittore e giornalista, nel suo L’O di Roma. In tondo e senza fermarsi mai (ed. Laterza) e ripreso dagli autori della Guida alla Roma ribelle (ed. Volad), dedicata ai luoghi sparsi abitati da ‘sovversivi’ che ne hanno tracciato la storia quanto la Storia con la ‘s’ maiuscola, speso obbligati al sussurro, quando non al silenzio.

Poco nota, allora, ma tramandata e oggetto di studio la vicenda di San Giovanni (piccola chiesa al Celio nella via omonima, fondata tra il IV e il VII secolo e ricostruita nel XII secolo), risalente al 1578, quando vennero bruciati i cadaveri di 8 uomini, torturati e impiccati perché, racconta Montaigne, si erano sposati tra loro con tanto di rito religioso.

Una storia difficile da ricostruire per quanto è ancora avvolta dal mistero, ma lo storico Giuseppe Marcocci gli ha dedicato uno studio pubblicato nel 2010 dalla rivista quadrimestrale Quaderni storici e dal quale attingono gli autori della Guida, introducendoci nel suo contesto.

Giuseppe Marcocci – e “di conseguenza” Giartosio – partono da Viaggio in Italia, il diario tenuto quasi quotidianamente dal filosofo e politico francese Michel de Montaigne (1533 – 1592) durante la sua permanenza nel Bel Paese dal 1580 al 1581.

In data 5 marzo 1582 il filosofo francese, riferendosi alla chiesa di San Giovanni scrive “…nella quale certi portoghesi avevano fondato qualche anno fa una strana confraternita: si sposavano con le medesime cerimonie che noi usiamo per il matrimonio e facevano comunione insieme, leggevano il vangelo stesso delle nozze e poi dormivano e abitavano insieme”.

Montaigne scrive 3 anni dopo i fatti, quando ancora non si era dissolto il clamore del fatto. Lo storico Marcocci cita il dispaccio del 2 agosto 1578 con il quale Alessandro Tiepolo, ambasciatore veneto, informava le autorità di Venezia dell’arresto pochi giorni prima di “spagnoli e portoghesi, i quali, adunatisi in una chiesa ch’è vicina a San Giovanni in Laterano … si maritavano l’uno coll’altro, congiungendosi insieme come marito e moglie”.

Gli arresti riguardavano 11 persone, specifica Tiepolo, avvenuti il 20 luglio 1578, una domenica pomeriggio, vittime di una delazione di “tal Giuseppe” atteso in loco ma che invece si dette malato”.  Un vero traditore questo Giuseppe, un nemico inaspettato stando al racconto emerso durante gli interrogatori. Uno degli arrestati dichiara che al momento dell’irruzione l’atmosfera nella chiesa era gaia: “Io haveva messo l’acqua al foco per pelare certi pollastri, Pinto spazava la casa”.

Marcocci descrive la “strana confraternita”: al suo interno vigeva la libertà sessuale e offriva un posto sicuro e protetto alle coppie omosessuali. Il sabato si univa a loro anche un gruppo di ebrei. Ricordiamo che nel 1555 con la bolla Cum nimis absurdum papa Paolo IV limitò i diritti della comunità ebraica e impose l’istituzione del ghetto, e dal 1572 papa Gregorio XIII gli impose di assistere ogni sabato a prediche che avevano lo scopo di convertirli al cattolicesimo.

Lo storico non precisa, ma pensiamo che fra i componenti della “bella setta” (ancora Montaigne), gli ebrei si sentissero più liberi e tranquilli, poiché in quella chiesa appartata, adiacente alle mura ma fuori dal centro della città, questi “stranieri poveri e omosessuali si erano illusi di passare inosservati” riporta la Guida della Roma ribelle.

Prima delle esecuzioni,  avvenute il 13 agosto 1578, gli arrestati furono mandati a processo. La documentazione relativa al processo, ridotta a frammenti, fa ipotizzare a Marcocci la volontà di eliminare carte compromettenti.

Le udienze durarono 3 settimane e le carte a disposizione si riferiscono all’arco temporale 27 luglio – 3 agosto. Un periodo limitato, ma sufficiente per affermare che la confraternita duro mesi, forse un anno, e che la sua ragione di essere fossero le nozze; la cerimonia si svolgeva sempre di domenica, in chiesa, con uno dei due uomini vestito da donna, seguendo la liturgia ufficiale, compresa la lettura del Vangelo.

Ed è proprio la fedeltà al rito sacramentale che costituisce l’elemento chiave del ragionamento di Montaigne. tratto dalle opinioni dei romani sulla legittimazione dell’unione di due persone dello stesso sesso: “Le battute dei romani dicevano che, dal momento che l’unione fra maschio e femmina è resa legittima soltanto dalla circostanza del matrimonio, a quei sottili personaggi era parso che l’altro atto sarebbe divenuto anch’esso legittimo, perché autorizzato dalle cerimonie e riti della Chiesa”.

A suffragio di Montaigne, Marcocci conclude: “Non si trattò di imitazione, di una parodia ma di una appropriazione; come tale e di per sé assolutamente eversiva”.

Ancora oggi San Giovanni di Porta Latina è fra le chiese romane più richieste per celebrare i matrimoni, non “eversivi”.

Dopo oltre 400 anni, esattamente dal 2016 in Italia gli omosessuali hanno,  finalmente, il diritto di poter formalizzare la loro unione, alla luce della legge sulle unioni civili.

La storia con la “s” minuscola, che si fa storia con la “S”, maiuscola, potrebbe virare verso la consacrazione del matrimonio, sorretto dalla  legge universale dell’amore.

 

 

 

Bibliografia: Guida alla Roma ribelle di Rosa Mordenti, Viola Mordenti, Lorenzo Sansonetti, Giuliano Santoro, prefazione di Alessandro Portelli (ed. Volad), a sua volta basatosi su Le O di Roma di Tommaso Giartosio (Laterza, 2012); Matrimoni omosessuali nella Roma del tardo Cinquecento. Su un passo del Journal di Montaigne in Quaderni storici (2010), qui; Viaggio in Italia di M. de Montaigne, prefazione di C. Piovene (Laterza, 1972)

 

 

 

Immagine: Roma, San Giovanni di Porta Latina – photo by LPLT – Wikimedia Commons

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