Gli Usa e il greenwashing di Stato
L’isola di Jean Charles, in Louisiana, affonda nel Golfo del Messico. I suoi abitanti, discendenti dei nativi americani Houma, che si rifugiarono qui nell’Ottocento, sono dal 2016 i primi “rifugiati climatici” degli Stati Uniti.
Alla fine degli anni Venti del Novecento lungo la costa furono travati gas e petrolio. I lavori compiuti per la loro produzione come il taglio dei canali naturali (che ha provocato l’alterazione della circolazione salinità delle paludi), la costruzione oleodotti, di dighe e argini artificiali lungo il fiume Mississippi che intralciano il flusso naturale delle acque, scrive Marco Congiu su tg24sky.it (il reportage, sui canali dell’emittente televisiva) hanno compromesso le protezioni naturali da erosioni e mareggiate mentre gli uragani, negli ultimi 20 anni, sono diventati sempre più frequenti.
Dei 90 chilometri lungo i quali si sviluppava l’isola oggi ne rimangono una manciata. Il delta del Mississippi è la terra che sta scomparendo più velocemente al mondo, colpita dalla
Ma è soltanto uno dei fenomeni che sconvolgono la terra e le persone che vi abitano negli Stati Uniti, causati dalle attività umane.
La sporca verità
Gli States non prendono seriamente le misure anti-emissioni, al punto da ricorrere, spesso, al greenwashing che in Italia chiamiamo anche ambientalismo di facciata.
Lo rivela il rapporto il cui titolo non potrebbe essere più chiaro: The Dirty Truth About Utility Climate Pledges, ossia La sporca verità sugli impegni sul clima delle società pubbliche di servizi, redatto da un gruppo di esperti del Sierra Club e da Leah Stokes, professoressa all’Università della California che da tempo studia le politiche ambientali.
Il rapporto, alla sua 2° edizione, ha analizzato e valutato il comportamento di 50 società pubbliche di combustibili fossili rispetto agli impegni annunciati per contrastare il cambiamento climatico, ossia produrre entro il 2030, l’80% di energia pulita, obiettivo al quale mira l’attuale amministrazione Biden. In tal senso va il Piano delle risorse integrate di PacifiCorp per 2021 che traccia il raggiungimento attraverso le fonti rinnovabili incluse le risorse eoliche, solari, la riduzione delle emissioni di carbonio del 74% rispetto ai livelli del 2005.
Invece secondo il report le società dei servizi pubblici non hanno ancora elaborato i piani per raggiungere tale traguardo e per il coautore, Noah Ver Beek, il loro impegno si limita a poco più del greenwashing. Giudizio doppiamente negativo se si considera che il gruppo di esperti non ha valutato il Dipartimento per l’acqua e l’energia elettrica di Los Angeles e il Pacific Gas and Electric (aziende nazionali) perché entrambe acquistano l’energia generata dal carbone e dal gas ma non ne sono proprietari.
La guerra in Ucraina
Ma il momento attuale è “davvero critico” per la transizione energetica, secondo Beek, considerando, inoltre che la guerra tra l’Ucraina e la Russia porta gli Stati Uniti ad esportare il gas naturale liquefatto (GNL) in quei paesi dell’Unione Europea, soprattutto in Italia e Germania che devono sostituire le forniture russe.
Una ghiotta occasione di guadagno che non può non richiamare l’interesse delle società pubbliche della prima economia del mondo che è però dimentica di essere anche il secondo maggiore inquinatore del mondo, dopo la Cina.
E a poco, temiamo, serviranno da deterrente i grandi incentivi nel nuovo disegno di legge bipartisan per le infrastrutture progettato per aiutare le utilities a ritirare le centrali a carbone e passare alle energie rinnovabili.
Immagine di Los Muertos Crew -pexels.com