Iman pakistani contro il terrorismo e le violenze religiose
Più di 500 leader religiosi musulmani del Pakistan hanno condannato pubblicamente il terrorismo e ogni tipo di violenza consumata in nome della religione e, quindi le fatwa (gli editti sacri) emanate dagli ulema* radicali, proclamando il 2019 “l’Anno per annientare il terrorismo, l’estremismo e la violenza settaria dal Pakistan”, ribadendo che “i cittadini non musulmani devono godere degli stessi diritti di tutti gli altri”.
I religiosi appartengono al PUC (Pakistan Ulema Council’s – Consiglio Ulema del Pakistan) un’unione di religiosi musulmani delle diverse scuole islamiche fondata nel 1988 e massima autorità religiosa del Paese, riunitisi a Islamabad il 7 gennaio 2018, dove hanno sottoscritto una Dichiarazione costituita da 7 punti che, si auspica, sia storica.
I 7 punti della Dichiarazione di Islamabad
La Dichiarazione di Islamabad, com’è denominata, si pone l’obbiettivo di garantire le libertà fondamentali, compresa quella per i non musulmani residenti in Pakistan di professare la propria religione, richiamando lo Stato al suo dovere di rispettare le minoranze.
1) Il primo punto condanna gli omicidi compiuti “con il pretesto della religione”, confermando che sono contro gli insegnamenti dell’Islam;
2) Nel secondo punto si riafferma il principio per cui nessun leader religioso ha il diritto di criticare i profeti. Che nessuna fazione può essere dichiarata “infedele”.
3) Nel terzo punto si ribadisce che nessun musulmano o fedele di confessione altra, può essere dichiarato “meritevole” di morte da sentenze pronunciate al di fuori dei tribunali. Ogni cittadino pakistano di ogni religione o gruppo religioso ha il diritto costituzionale di vivere seguendo i propri canoni culturali e dottrinali.
4) Il quarto punto riconosce per tutti il diritto di organizzare in modo autonomo le riunioni e congregazioni di carattere religioso e/o culturale, previo consenso delle amministrazioni locali.
5) Il quinto punto vieta in modo assoluto la pubblicazione di ogni tipo di materiale (libri, opuscoli, audio) che incitano all’odio religioso.
6) Il sesto punto conferma che essendo il Pakistan un paese multi-etnico e multi-religioso, secondo gli insegnamenti della sharia “il suo governo deve proteggere la vita e le proprietà dei non musulmani residenti e deve trattare con fermezza gli elementi che minacciano i loro luoghi sacri”.
7) Il settimo punto, infine, ribadisce l’importanza dell’applicazione del Piano d’azione nazionale nella lotta al fondamentalismo. Da cui la decisione di decretare il 2019 come l’anno dedicato a “sradicare il terrorismo e le violenze settarie nel Paese”.
La Dichiarazione, così è stato riferito dall’Asia News e dall’Agenzia Fides, eccezionalmente fa riferimento al caso di Asia Bibi. Cristiana condannata per blasfemia a morte in Pakistan nel 2010, Asia Bibi è stata assolta dalla Corta Suprema e liberata il 31 ottobre 2018 dopo quasi 9 anni di carcere, ma il caso non è ancora chiuso, perché esponenti radicali hanno ottenuto dal governo che sia trattenuta nel Paese, fino a quando non sarà discussa la revisione pendente del suo processo. Il Consiglio degli Ulema chiede al Governo di dare “precedenza assoluta” alla richiesta di revisione del procedimento.
Si può coltivare la speranza?
Nonostante la Dichiarazione accenda molte speranza nella comunità internazionale, è necessario la cautela.
Paul Bhatti, attivista pakistano per i diritti umani, raggiunto da Vatican News, ricorda come già nel 2013 nel corso di un congresso al quale avevano partecipato oltre agli iman anche il presidente e il primo ministro del Paese aveva ascolto le stesse “intenzioni che però non hanno avuto seguito”. Per Bhatti, fratello di Shahbaz che nel 2011 ha pagato con la vita l’aver difeso Asia Bibi, deve “cambiare il Pakistan non solo da un punto di vista religioso”. E per cambiarlo è necessario intervenire in “in quelle scuole religiose nelle quali si fa il lavaggio del cervello”. Si cambia se cambia l’educazione. Il Pakistan è una repubblica islamica “che non riconosce uguali diritti alle minoranze. Deve cambiare la Costituzione” insiste Bhatti che ricorda che “il 95% della popolazione è islamica e solo il 5% è di altre confessioni”.
Anche Sabir Michael, attivista per i diritti umani e delle minoranze, intervistato dall’Agenzia Fides va col pensiero a quando iniziative come la Dichiarazione “non hanno avuto molto successo”. E rimarca che soltanto se il Governo e le comunità religiose “lavoreranno insieme in questa direzione” allora si otterranno risultati concreti. Ed esorta a “non perdere la speranza, per il bene del Pakistan”.
*Ulema: nel mondo musulmano è il titolo attribuito ai teologi e ai giureconsulti, depositari della legge religiosa dell’Islam
Fotografie dall’alto verso il basso: 1) Pakistan, Hafiz Ashrafi, presidente del PUC; 2) Asia Bibi; 3) Paul Bhatti, attivista per i diritti umani