La trama universale del kente. Una cosa bella è una gioia per sempre
Letter from Africa è la rubrica dell’emittente britannica BBC che, come anticipa il titolo, che raccoglie le ‘lettere’ di giornalisti africani. Fra questi troviamo la missiva che la scrittrice ghanese, Elizabeth Ohene ha scritto sulla scia del successo del kente, il tessuto protagonista della sfilata di moda di Virgil Abloh (direttore creativo del marchio Louis Vuitton) a Parigi, gennaio 2021. Un racconto delle peculiarità di questa stoffa tipica del suo paese e una riflessione sulle conseguenze della sua popolarità globale.
“In Ghana abbiamo assoluta fiducia nel nostro senso della moda. Ci capita anche di credere che il tessuto più bello e drammatico su questa Terra sia il kente, che è, ovviamente, ghanese. Il materiale finemente tessuto è diventato il simbolo distintivo del Ghana e dei Ghanesi e, in effetti, dell’Africa e per i neri in generale” esordisce Ohene per poi cedere il passo ai dettagli storici.
Allora veniamo a sapere che c’è stato un tempo in cui il kente era un tessuto “rigorosamente regale”, indossato dall’élite ghanese nelle grandi occasioni, i cui disegni erano esclusivi e irripetibili. Oggi pur essendo ancora costoso, è più accessibile.
In Ghana ci sono 2 tipi di kente, realizzati dai gruppi etnici Ashanti ed Ewe. Da principio era facile distinguerli: l’Ashanti kete aveva colori ben definiti mentre i modelli Ewe kete mostravano colori meno vibranti. Con il tempo si sono “nutriti a vicenda” scrive Elizabeth Ohene e oggi le differenze sono molto sfumate.
Il kente sa ancora parlare
Per i ghanesi il kente è il loro simbolo, una profonda espressione culturale e distintiva con una poderosa valenza politica, e proprio per questo, rimangono smarriti di fronte alla grande popolarità che il tessuto va acquistando e rispetto alla sua crescente internazionalità assumono un atteggiamento “ambivalente”.
Sono orgogliosi quando è indossato da uno straniero “di alto profilo”. Perplessi di fronte alla produzione su ampia scala cinese, con i famosi disegni a trama intrecciata ormai stampati invece che fatti a mano, anche se è proprio alla fattura artigianale che si deve la sua popolarità del tessuto. E le domande si moltiplicano “: È ancora kente se non è tessuto a mano e diventa stoffa economica? È giusto indossarlo quotidianamente o dovrebbe ancora essere riservato alle occasioni speciali”.
Ma la perplessità marcia con la felicità di vederlo celebre nel mondo e, comunque, il kente non sembra perdere la sua identità. Lo testimonia l’episodio avvenuto nel 2018 al Congresso degli Stati Uniti e citato da Ohene. Quando un gruppo di legislatori nordamericani per contestare gli aggettivi offensivi che l’allora presidente Donald Trump aveva rivolto al San Salvador, ad Haiti e alle nazioni africane considerando i loro “immigranti non desiderabili”, si presentarono vestiti di nero con sopra stole di kente, dando vita a una protesta silenziosa. Fotografati, la loro immagine fece il giro del mondo. Il kente “aveva parlato”, ancora una volta, a dovere.
Ora il tessuto ghanese è stato il leit-motiv della sfilata disegnata da Virgil Abloh, artista e architetto americano, ma figlio di genitori ghanese e “noi lo rivendichiamo” scrive Ohene.
Virgin Abloh sulle tracce di James Baldwin
Lo stesso Abloh ha esaltato le sue radici nella sfilata autunno-inverno 2021-22, ispirato al saggio di James Baldwin – Stranger in the Village – scritto nel 1953 quando il celebre autore afroamericano, per riprendersi da un esaurimento nervoso, trascorse del tempo a Leukerbad, località termale svizzera nelle Alpi Vallesi. Dalla considerazione di essere l’unico nero in quella remota e isolata cittadina montuosa e, forse, il primo nero che i residenti avessero mai visto, Baldwin riflette sul sentimento di estraneità, lo stesso che provava negli Usa dove era nato e dove i neri vivono da secoli.
Da qui le sue riflessioni sulla storia europea e, soprattutto, sulla storia americana che si ostina non voler riconoscere l’interdipendenza tra i bianchi e i neri. Se è impossibile che i neri continuino a essere stranieri negli Stati Uniti è anche impossibile che l’America ridiventi una nazione europea “tutta bianca epurata dai neri” come cerca di fare mantenendo la separazione tra i due popoli. “Gli americani hanno tentato fino ad oggi di fare del nero un’astrazione – osserva Baldwin nel suo saggio – quando il nero è “una parte ineludibile del tessuto sociale generale”.
Abloh, nella sua sfilata – spettacolo, riprende il concetto di estraneità di Baldwin e lo estende ai preconcetti di genere e di gerarchia sociale. Delinea archetipi e culture, per poi riappropriarsi del proprio patrimonio culturale. E il kente trionfa.
Il dilemma si scioglie nei versi di Keats
In Ghana il tessuto è ancora impiegato per capi tradizionali, scrive la scrittrice, ma reinterpretato oltre che dal capofila Abloh, dai “tanti giovani audaci artisti che stanno sperimentando look e colori nuovi e non convenzionali”.
Torna allora il dilemma sul futuro del kente nel mondo, sul suo passaggio da simbolo identitario di un popolo e di un continente a manufatto fashion, che Ohene sembra risolvere, citando i primi versi del poema Endimione di John Keats: “Una cosa bella è una gioia per sempre/cresce di grazia /mai passerà nel nulla…”.