La Sampdoria in Uganda. Per restituire presente, futuro e pace
Prosegue il programma umanitario della società calcistica Sampdoria. Dal 17 al 19 maggio 2019 gli allenatori professionisti della squadra genovese si sono recati in Uganda per allenare oltre 140 ragazzi tra i 13 e i 16 anni provenienti dai campi del West Nile, la regione nel nord ovest dell’Uganda che ospita la gran parte dei rifugiati provenienti dal Sud Sudan e dal Congo. I 3 giorni di stage sono culminati nel torneo finale.
La lodevole iniziativa è frutto dell’idea dell’Ambasciata italiana in Uganda e realizzata grazie alla Sampdoria in collaborazione con l’ong italiana ACAV (Associazione Centro Aiuto Volontari), alle Federazione delle Associazioni di Calcio e Comitato Olimpico ugandese e all’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Una esperienza riuscita, preludio di un programma di 3 anni che favorirà, attraverso lo sport, l’inclusione e la riabilitazione sociale, con il fine di offrire ai rifugiati la possibilità di dare alla loro vita una dimensione presente e futura di normalità. Un progetto a medio e lungo termine – con l’intervento del Comitato Internazionale Olimpico (CIO) – che prevede oltre ai corsi di allenamento, esteso anche ad altri sport, corsi di gestione dello sport e la realizzazione d’infrastrutture sportive.
Il sito dell’UNHCR ha riportato alcune testimonianze dei giovani rifugiati che hanno partecipato ai 3 giorni con la Sampdoria. Come quella di Patrick Amba, che riflette l’importanza dell’inclusione sociale e di scorgere una prospettiva futura. Costretto con la sua famiglia a lasciare il Sud Sudan dove è nato quattordici anni fa, per Patrick partecipare ai 3 giorni di maggio ha significato “felicità” perché si è sentito “membro di una comunità e ho potuto condividere le mie idee”. Attraverso il calcio, Patrick è sicuro di “incontrare nuovi amici” ma soprattutto conta di “diventare così bravo da poter aiutare la mia famiglia. Penserò io alle mie sorelle e ai miei genitori”.
La maggior parte dei rifugiati in Uganda proveniente dal Sud Sudan ha meno di 18 anni e, riferisce l’UNHCR, la metà “non ha la possibilità di andare a scuola o è costretto a studiare in ambienti sovraffollati e male equipaggiati”. E quando i bambini non vanno o non sono a scuola, aggiunge James Bond Anywar protection assistant dell’UNCHR, non hanno “molto da fare negli insediamenti, per questo lo sport li tiene impegnati e attivi, li aiuta a farsi nuovi amici: è un’attività che ha un forte impatto sulle persone” e per questo veicolo di “pace” tra i rifugiati e le comunità ospitanti.
Marco Bracco e Roberto Morosini, i preparatori atletici della Sampdoria, hanno basato l’allenamento su sessioni di dribbling e passaggi “per costruire le capacità di coordinazione, controllo e disciplina”. Accanto a loro, Haruna Mawa, ex calciatore della nazionale ugandese, fermamente convinto che quando vengono introiettati i valori espressi dallo sport, questi “finiscono col diffondersi come una malattia”.
Bracco e Morosini hanno descritto il gioco di questi ragazzi “molto fisico, più tecnico che tattico”; sicuramente si tratta di giovani “molto bravi e forti” che “ci mettono il cuore”.
“Dopo questa esperienza – ha concluso Morosini all’UNHCR – posso tornare in Italia e spiegare ai miei stessi giocatori che ci sono persone che giocano senza scarpe e senza campo, ma in ogni caso vogliono giocare”.
Ricordare, loro, il valore della determinazione e del cuore nel calcio e nella vita.
Fotografie tratte dal sito dell’UNHCR: Uganda, in alto un momento degli allenamenti; in basso, Marco Bracco, preparatore atletico della Sampdoria con un giovane giocatore