Hillbilly. Il furore americano del XXI secolo
Negli Stati Uniti con il termine hillbilly s’indicano le persone che abitano nelle zone rurali e di montagna, precisamente Kentucky, i monti Appalachi, West Virginia e l’Ohio: uomini bianchi assoggettati ad un’endemica povertà che, nel corso della loro storia, hanno cercato di risolvere correndo dietro alla produzione industriale.
Il termine è di conio antico. La sua diffusione, tramite stampa, inizia alla fine del XIX secolo, per indicare l’abitante tipico dei monti Appalachi. Da allora non è mai caduto in disuso, cavalcato dalla cultura: letteratura e cinema. Hillbilly è l’accezione dispregiativa di Poor White, classificazione storica e socio- culturale di uomini bianchi e poveri di discendenza europea e originari nel Sud degli Stati Uniti e, ritorna ancora, in Appalachia.
Bianchi si, ma sempre economicamente svantaggiati, generazione dopo generazione: nei secoli passati non possedevano né terra né schiavi, in tempi più recenti disoccupati perché ex operai di industrie chiuse per la decolonizzazione prima, per la globalizzazione poi, per l’automatizzazione oggi o perché minatori di miniere di carbone, ormai troppo inquinanti per essere operative, troppo costose per essere riattivate. Nonostante Donald Trump (il neo Presidente americano ha ottenuto la maggioranza dei voti in queste aeree geografiche ), il quale, non a caso, con un ordine esecutivo ha appena annullato le norme ambientali degli Usa contro i cambiamenti climatici, per rivedere le regole sulla riduzione delle emissioni inquinanti delle industrie americane, a suo parere, la principale causa della mancanza di occupazione.
La ricerca
La condizione degli Hillbilly esplode in tutta la sua drammaticità nei risultati della ricerca condotta da Angus Deaton, premio Nobel per l’economia nel 2015, e da Anne Case, economista presso la Princeton University.
Dallo studio, infatti, emerge che gli uomini bianchi, di mezza età e con un basso livello d’istruzione stanno morendo a un ritmo senza precedenti, superando il tasso di mortalità dei connazionali di colore e gli ispanici della stessa età e dello stesso livello di scolarizzazione.
Un fenomeno che riguarda esclusivamente gli Stati Uniti, estraneo agli altri paesi sviluppati. Se nel 1999 il tasso di mortalità della stessa fascia di persone era inferiore del 30% rispetto agli statunitensi di colore con le stesse caratteristiche, nel 2015 la mortalità di questo gruppo di bianchi ha superato per il 30% quella degli afro-americani. Dal XX secolo in poi, il tasso di mortalità a livello mondiale e per tutte le categorie sociali è sceso ogni anno del 2%, tranne che per gli Hillbilly, apprendiamo dalla ricerca, che muoiono 2 volte in più rispetto alle donne bianche e 4 volte in più degli uomini bianchi laureati.
Le cause dell’impennata del tasso di mortalità risiedono nell’incremento dei suicidi, per i decessi causati da overdose per eroina (35mila nel 2015), dall’abuso di farmaci oppiacei e per alcolismo. Una disperazione insormontabile. Perché? Per l’incapacità di vedere una soluzione alla propria disoccupazione? Sono concause, affermano Deaton e Case ma non sufficienti, precisano, per spiegare il fenomeno che ha “cause più profonde”. Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che aumenta la longevità degli afro-americani e degli ispanici disoccupati residenti negli Usa. Ancora meno, se si confronta con la longevità degli europei, sottoposti allo stress della crisi economica del 2008 e alle conseguenti politiche di austerity; longevità che non solo non subisce modifiche, ma è in fase di avanzamento tra le fasce di popolazione meno istruite e con minore capacità di acquisto, rispetto a quelle più agiate e istruite.
Gli svantaggi cumulativi
Gli autori della ricerca, sono propensi ad individuare i reali motivi delle morti precoci dei Poor White in quelli che definiscono gli “svantaggi cumulativi”. Una serie di condizioni debilitanti e disfunzionali che hanno accumulato nel corso della loro esistenza, causati dalle profonde trasformazioni socio-economiche: l’abbandono precoce degli studi attratti da un mercato, all’epoca, pieno di offerte di lavoro con retribuzioni allettanti; il mutamento del ruolo sociale della donna; l’aumento dei divorzi , la frammentazione familiare e la mobilità geografica.
Fattori comuni anche ad altri gruppi di persone, ad esempio i bianchi di origine ispanica. Ma questi ultimi coltivano la speranza, vitale, per un futuro migliore per loro e, ancora di più, per i loro figli. Non rimpiangono una situazione economica migliore vissuta nel passato; non l’hanno mai avuta. Al contrario dei bianchi statunitensi poco istruiti, che hanno visto e vedono cambiare il paradigma su cui avevano fondato la loro esistenza e ne sono sopraffatti.
Il libro
Il 6 aprile 2017 arriverà nelle librerie italiane “Elegia Americana”, titolo originale “Hillbilly Elegy. A memoir of a Family and Culture in crisis“, pubblicato da Garzanti e scritto da J.D. Vance. Caso editoriale negli Usa, uscito nel giugno 2016 e diventato in poco tempo un best-seller, il libro è autobiografico.
J.D. Vance, nato nel Kentucky nel 1984 con il nome James Donald Bowman, , ripercorre la sua infanzia. Mamma tossicodipendente e spesso fidanzata o risposata, padre minatore alcolista, così come lo sono i vicini di casa e gli amici, perduti per overdose. Passa attraverso patrigni e affidatari. Ma grazie ai nonni che l’adottano arriva al diploma, si arruola nei Marines e parte per l’Iraq, torna e si laurea in legge a Yale. Oggi lavora a San Francisco nella Silicon Valley, è sposato e ha un figlio.
J. D, Vance, quindi è l’eccezione che conferma la regola. Un bianco, che a dispetto della depressione del suo luogo di nascita e della povertà e disagio dei suoi genitori, studiando ce l’ha fatta. Sa di cosa racconta quando scrive sugli Hillbilly e spiega i motivi per i quali l’America bianca e povera spera in Donald Trump.
Nel 2020 il libro è diventato il film Hillbilly Elegy diretto da Ron Howard dove la nonna di Vance è interpretata dall’attrice Glenn Close, candidata come miglior attrice non protagonista a molti premi compreso l’Oscar 2021.
Il lungometraggio, non apprezzato dalla critica soprattutto statunitense, è stato prodotto da Netflix, sulla cui piattaforma è tuttora disponibile.
D. J. Vance, già senatore per lo Stato dell’Ohio, il 15 luglio 2024, nel corso Congresso Nazionale del Partito Repubblicano a Milwaukee è stato candidato alla vicepresidenza di Donald Trump, qualora quest’ultimo dovesse vincere le elezioni presidenziali di novembre 2024.